lunedì 13 maggio 2013

2012, Sara chiede, RAFFO ne risponde


Appunti distratti tra pieghe senza spiegazione, poco più di una conversazione, per Sara Faccin e la sua ricerca 


-perché non dipingi ma hai scelto di fare altro? dipingevi prima?

-Ho dipinto più o meno fino al ’95, ma già dal ’92 ho iniziato a celare la pittura (in senso proprio anche fisico…) dietro ingombri cartacei o dentro scatole e contenitori, e per tre anni i due percorsi si sono affiancati/integrati. Il colore prendeva materia su fogli di carta da disegno standard, A4 da album scolastico.   Volevo agire sul supporto più anonimo con lo strumento più elementare, usando unicamente pastelli ad olio, la forma di colore più prossima al semplice pigmento sfregato su una parete con cui l’Uomo iniziò l’avventura sciamanica della pittura.
Volevo che al centro del mio fare non ci fosse la ricercatezza dei mezzi usati o la perizia tecnica, ma la semplice urgenza del colore di farsi pittura. Per questo mi ero lasciata alle spalle anche il periodo di pittura a olio, a velature con pennelli di martora e particolari rifiniti capello per capello, che precedette il mio iscrivermi all’Accademia. Sicuramente un periodo utile per affinare lo sguardo sul colore nel suo farsi armonia o stridore, ma non in sintonia con le mie urgenze espressive, (dava solo più spazio allo sbarcare il lunario… il figurativo ha un pubblico più ampio…) La scelta di agire su fogli ordinari sottolineava, nel mio intento, il limitato spazio a margine in cui il ritmo del “fare per essere” relega il pensiero di ricerca del sé. 

Intervenivo sul foglio con un accumulo di segni che venivano a costruire una tessitura di cui si impregnava la carta e si delineava uno sfondamento della bidimensione in un’astrazione d’atmosfera lirico espressionista. Scolpivo con il colore a colpi di lametta da barba, mettendo e togliendo la materia pittorica fino a che il foglio pareva perdere la sua bidimensionalità e i segni di pigmento, spatolato dalla lametta caricata dal suo togliere materia, restavano come sospesi su una non-materia luminosa. Tutto questo, ripensandoci ora, molto in continuità lineare con l’esplorazione dell’astrazione lirica e la sensualità del colore nel suo svanire in luce che affrontai nel periodo dell’Accademia, periodo in cui mi resi conto di interrogarmi non tanto sulla pittura in sé, materia, gesto, colore, spazio, quanto sui materiali, sui supporti, e di avere anche un’esigenza di dialogo con la quotidianità e il desiderio di diminuire la separatezza del linguaggio pittorico rispetto ai gesti della quotidianità. L’usare materiali già codificati per “fare pittura” accentua la pittura come mondo a sé e io vorrei incidere nella decodifica dei segni e sogni della vita, e non dialogare solo con le ricerche pittoriche esposte nei musei o studiate sui libri. Sento la pittura in strada, là dove i Novorealisti la indicarono, e in strada iniziai a cercare le mie risposte. Le prime installazioni con materiali da imballaggio nacquero per esprimere il mio “ingombro mentale”, chiamiamola allergia al fare pittura che richiedesse supporti, cornici, attaccaglie e vendita a punti, a cui si sommava l’odio per come la conoscenza del lavoro degli artisti sia sempre mediata da pessime foto da catalogo che ne distorcono ogni senso.

 …Ero stanca di litigare con i colori sbagliati delle tipografie… I rossi non corrispondevano mai ai miei rossi! Perdevano sensualità ricordando solo il pomodoro da pizza… Esagero ovviamente, ma nemmeno troppo!Volevo eliminare una serie di vincoli, e le scatole raccolte nei supermercati furono la mia prima risposta per legare il mio percorso d’arte alla quotidianità, mia e altrui.
Come il pittore rupestre che contribuiva alla caccia con la sua abilità di narrazione visiva, così io iniziai a nutrirmi dei resti della caccia altrui: le scatole e le pubblicità.
Più gli altri consumano e comunicano, più io ho di che lavorare: le scatole svuotate dagli acquisti sono il colore con cui esprimermi. Non per un intento di riciclo, ma per una ritrovata partecipazione al ciclo sociale. Mi è sembrato il modo per rendere la città il mio territorio di caccia, senza essere io a darmi in pasto a colorifici e corniciai… e per avere sempre con me gli strumenti, scatole e volantini rintracciabili ovunque, con cui costruire installazioni e concrezioni, pensieri cartacei in 3D, anche viaggiando leggera, un po’ di colla, una pistola per colla termica, un po’ di scotch, e le mani in tasca in giro per le città.


 -però comunque il fattore cromatico è un elemento del tuo lavoro, almeno per quanto risulta alla mia visione, non credi sia un po' pittura allargata?
-Sicuramente è pittura, quasi a pieno titolo, anche se alla base del mio fare c’è un concetto che esula dagli interrogativi della pittura.

Nasco pittore e il mio occhio non demorde a tirarmi in quella direzione. A volte lo vivo come un limite. Sono cosciente che l’equilibrio cromatico è un di più che distrae dai concetti da cui nasce il mio lavoro, ma la pittura resta per me una chiave per “incartare” gli sguardi a fermarsi, il mio per primo, e soprattutto una porta alchemica di vitale importanza.
La prima volta che capii questo, fino nelle mie cellule più recondite, fu davanti a un sarcofago egizio. Ero alla National Gallery a Londra, e guardando quattro assi dipinte, inchiodate a comporre una cassa da morto, capii il senso alchemico del dipingere.
Non era un sarcofago prezioso, era uno dei più semplici e rudimentali, e lo strato di colore che ne decorava le assi non aveva nulla di eccezionale, ma, fissandolo, mi resi conto di quello che esso provocava su quella materia: la scatola di legno si trasformava da contenitore a luogo di passaggio, diveniva porta di accesso ad una dimensione immaginaria. L’uomo aveva dipinto quelle assi perchè il morto potesse passare dalla materia di una superficie ad un luogo di viaggio. Stetti male: per due ore non riuscii ad aprire bocca né a muovermi. Mi girava la testa e avrei voluto fermare quel momento di folgorazione e fissarlo per sempre nel mio sentire. Era una risposta senza altre vie d’uscita sul senso della pittura, che poi purtroppo ho più volte perso per strada, sporcandone il senso alchemico con urgenze concettuali che dirottano in altra direzione la mia ricerca. 

-credi sia possibile ancora dipingere oggi?

-La pittura va oltre ogni cecità d’animo e vivrà fino a che ci sarà pensiero libero.
E’ tutto ciò che si è costruito attorno alla pittura che andrebbe smantellato per ripristinarne l’essenza alchemica, che vien meno ogni qualvolta si riveste del “riprodursi in prodotto” senza  pensiero di ricerca. Io continuo a vederla come urgenza di approfondimendo di interrogativi, e non come furbizia/scorciatoia per ego ipertrofici a caccia di un prodotto azzeccato con cui far soldi.
Lo spazio, sempre più risicato e a margine, lasciato a chi ha la volontà di far ricerca e cultura, è territorio di libertà d’espressione. E resta tale almeno come utopia… 

Sara chiede. RAFFO ne risponde.   maggio 2012

estratto da "VALE LA PENA?"