lunedì 13 maggio 2013

2013 ABOUT... - Vicenza. Laboratorio AB23


Scusate se per il bene delle vostre orecchie ho scritto due righe, altrimenti, non avendo dimestichezza con la parola agita, rischio di finire chissà dove, in qualche pozzanghera a girare a vuoto senza trovare come uscirne e riempiendovi di schizzi inconcludenti, anche se sarebbero pur sempre d’artista…



Per chi, e soprattutto perché, lavora un artista?  Per esistere a se stesso, innanzi tutto, per scrivere da se stesso dei confini e prendere in essi forma, senza la quale non c’è leggibilità e comunicazione con l’altro da sé.
Adamo chiama ogni cosa con un suo nome, che diviene simbolo e significato di essa, e con esso la distingue. Adamo con questa parola, intermediario virtuale, può comunicare, e pure tweettare…. 
Può comunicare con un’altra persona che conosca le stesse simbologie… Ed è forse per questo che anche tra artisti non si parla più molto, non ci si confronta…. Ognuno si dedica all’approfondimento delle proprie simbologie, sempre più specifiche e differenziate, e non riconosce e analizza quelle altrui se non per denigrarle. Un po’come si vive la politica, un frazionamento egotico con  interazioni solo di convenienza e per massacrarsi a vicenda arroccandosi sul proprio terreno.
L’artista s’inventa delle simbologie a parte, un codice suo, una sua musica, qualcosa che dal suo sentire/riflettere/fare prende forma e inizia ad esistere, in primis ai suoi stessi occhi, e poi agli occhi di chi voglia ascoltare una nuova lingua, o una modulazione delle precedenti con nuove parole.
O con differenti silenzi.
La chiamano creazione, a me piace chiamarla alchimia.
Alchimia è quando una materia diviene altro e perde il nome che le dava confine, quello con cui la si era conosciuta, definita e ingabbiata in formula.
E da qui riprende la gara di Adamo. 
Davanti a questa nuova “cosa”, deve ri-trovare la parola più adeguata per dirla, per nomarla, per normarla a regola di lettura.
Ma qualcosa che è totalmente definibile in parole perde in parte il senso della sua forma ed esperienza visiva, quella attivata con tanta fatica dal fare creatore che elide e moltiplica la superficie di ciò che conosciamo per amplificarne il senso.
Troppo spesso a questo punto, a opera fatta, si toglie all’artista il ruolo di Dio-Adamo e lo si confina a Costola, costola intercambiabile di un sistema che ha costruito nel tempo precise gerarchie e normative. Inizia così un lavoro di delega quasi in bianco del proprio pensiero in mano ad altre persone che lo traducano al mondo. 

Non me ne voglia lo Studioso e critico d’arte qui presente, che rappresenta in modo saporito e positivo proprio uno dei poli di queste gerarchie, in origine il polo dei traduttori e traghettatori… in origine, ora sempre più di detentori del Verbo che nomina e dà forma pure all’artista stesso, che da creatore diviene spesso solo un girabulloni alla Chaplin,intercambiabile a piacere come pedina di un altro gioco che non gli appartiene più, o a cui sceglie di appartenere.  

Ma con i giusti interlocutori, qui ben rappresentati, l’artista e l’opera tornano al centro e gli artisti possono esprimere la loro diretta traduzione, visto che a volte sono bilingue: non nel senso che sanno l’inglese o hanno vissuto all’estero, come nel caso di Pozzi, o dall’estero vengono, come nel caso di Irma Blank…, ma nel senso che sanno usare il verbale oltre al visivo. E anche il pensiero, talvolta almeno... a volte è meglio non lo facciano. Spero non sia il mio caso…



Una narrazione che il più delle volte non ha spazio per confrontarsi, mentre a volte, come in questo caso, gli si mette a disposizione una terra di sperimentazione, l’occasione di un libro, una Collana di dialogo, uno spazio speciale per dirsi.
E l’artista ringrazia chi gli lascia la parola, chi gli dà un luogo in cui prendere forma e delineare il proprio sentire, un frammento della propria visione del mondo.  

L’altra settimana ho partecipato a un incontro di scrittura teatrale riguardante i monologhi. 
Un punto mi è rimasto chiaro, che collima anche con l’arte visiva e con la scrittura tout court:
ognuno può avere una storia da narrare, ma perché questa storia prenda forma per essere narrata e ascoltata da altri deve contenere un’urgenza in più, qualcosa che ci ossessiona, qualcosa per cui ti scappi di alzare la mano e prendere la parola, anche se sei il più timido della Terra.
Per far questo ci vuole anche che ci sia il tempo della riflessione e la democrazia dell’ascolto, che si sia liberi di alzare la mano, e che esista uno spazio, un teatro, un libro, unagalleria, un monitor, un marciapiede in cui esprimersi.
Questa collana Memorie d’Artista a cui mi è stato proposto di partecipare, è ilmettere a disposizione dell’artista visivo un diverso palcoscenico, quasianarchico rispetto alla crescente chiusura di teatri e di spazi autenticiattraverso cui incontrare e scambiare cultura.
E quando dico teatro intendo unluogo amplificante, non necessariamente dove si reciti, ma ogni luogo osupporto in cui si agisca uno scambio.


Scambio che sempre più raramente avviene nel mondo dell’arte, anche nelle Gallerie stesse, tese più al business del mercato che all’ascolto della Ricerca, la quale ha un’antica storia da cenerentola marginale, per pochi, o almeno così lo era quando l’opera era al centro del dibattito, e non pretesto per salotti e misurazioni di potere sociale. Ora c’è anche il palcoscenico della Rete, il massimo apparente di libertà, ma ogni brusio troppo intenso che divenga rumore reiterato, tende a spegnere la nostra soglia di attenzione. Il troppo stroppia, dicevano una volta. 

Anche se è corroborante che ci sia una tracimante scelta di voci, a volte il sussurrato di un libro è più dialogante, perché i tempi e i modi li si sceglie individualmente, senza rincorse e pressioni, compresi i pop up che ti si aprono mentre stai leggendo sul monitor, o la pubblicità che sbuca da ogni dove. Sbuca anche dal mio libro, in quanto è il materiale con cui lavoro di preferenza, e fa da controcanto alla raccolta di email attraverso cui mi racconto e racconto come vivo questa mia ossessione dell’Arte.  Un racconto solo per frammenti, spiati dal bordo di un monitor,come quando si ascoltano telefonate fatte ad altri e da esse si delinea il carattere della persona che abbiamo davanti, in questo caso l’esercizio è saper leggere tra le righe mancanti. 
Quando Peccolo mi ha chiesto di scrivere "memorie", ho pensato che, lavorando quotidianamente sui frammenti del dirsi e del tacere, anche in questo libro avrei potuto fare altrettanto, misurandomi con un diverso supporto espressivo.
Peccolo, con la curiosità del dietro le quinte di ogni recita,  ha fatta sua l’urgenza degli artisti di dirsi in prima persona, con la consapevolezza di un pensiero autonomo e l’urgenza di condividerlo nella differenza degli stili. E questa diversità di espressioni e riflessioni sono, libro dopo libro, raccolte da un cercatore di frutti di bosco, come ama definirsi Peccolo, che non cerca le luci della ribalta precotta scegliendo l’artista di moda sul mercato, ma scava un suo sentiero anche tra i rovi delle dimenticanze, dando la parola all’Arte non solo con la sua Galleria ma anche con queste Edizioni.
E anche per questo lo ringrazio, per avermi messo nel cesto, a condividere e confrontarmi con voci diverse, diversi codici simbolici, ma uguale spirito di autentica urgenza nel proprio fare arte, in condivisione con chi voglia porsi in ascolto. 
Ascolto di cui vi ringrazio stasera, come ringrazio di avermi costretto a questa esperienza di forma verbalizzata che raramente pratico. Infatti ho dovuto scrivere, che mi è più familiare, per non inciampare in un labirinto di troppe parole nella giungla della mia testa, a cui piace andare a piedi e perdersi per via. Il Tempo qui è segnato dai giochi di ruolo e dalle gerarchie, ed è meglio che parli chi più di me è avvezzo ad avere un microfono dalla parte del manico. O della presa di corrente. 
 


Raffaella Formenti -    Vicenza 2013

About WIKI SCRAPS


raffaella formenti
Appunti
about WIKI SCRAPS


Fino ad ora nel mio lavoro uno degli elementi concettuali reiteranti è il sottolineare come non abbia più respiro possibile un gesto, un evento, una ricerca, senza il “supporto sponsor”, quindi, e non solo metaforicamente, nelle mie concrezioni è la pubblicità che regge la ricerca.
Ora in questo ultimo lavoro sottolineo come sia la pubblicità stessa che crea l’evento per autopromozione.
Ho abolito il supporto e la dicotomia tra pittura e supporto che analizzavo fin dai tempi dei fogli con la pittura solo appuntata in modo transitorio ad un supporto “espositivo”, (1989 - ‘90) i tempi in cui mettevo in vendita una parte del foglio su cui dipingevo, come spazio per eventuale pubblicità a pagamento (sempre i primi pastelli, costituiti da una rete di segni, informazioni emotive anzichè pubblicitarie, ma pur sempre frame).

Ora costruisco stralci di messa in rete delle informazioni che divengono pittura tridimensionale senza supporti. E senza spazi appositi per gli sponsor.
Tutto il lavoro esiste solo perchè esiste la comunicazione. Non è più dissociabile in due momenti distinti: il supporto (depliant) che regge il fare (il momento di ricerca di una forma in 3D).
Nella serie “Rumori visivi” del 2002 c’era il concetto “più la gente consuma e più fa girare l’economia, più l’artista trova elementi di supporto al suo fare” (sempre non solo metaforicamente...nel mio caso!).
Sempre presente come riferimento è il ruolo primigenio dell’artista sciamano tribale, esonerato dall’andare a caccia grazie ai suoi disegni forieri di buona sorte per l’intera tribù, che per essi (i disegni...) lo nutriva (essa tribù..).
In “Rumori visivi” usavo il centinaio di scatole gialle trovate fuori da un negozio e le farcivo e sventravo in elementi pittorici in 3D.
Più gli altri svuotano scatole, più io ne ho per rifocillare il mio lavoro...
Anche nella serie “Deriva” il lavoro si autoreggeva senza supporti atti ad essere tali, come in molte concrezioni lungo tutto il mio iter (es: Tuwwwuoi del 2002, senza una scatola supporto, unicamente costruito di materiale pubblicitario).
In essi c’era sempre tuttavia un elemento aggregante a consolidamento formale della concrezione.

Con i WIKI SCRAPS c’è la perdita di forma e la sottomissione alla legge di gravità: se tutto è retto dalla pubblicità, se non esiste evento senza comunicazione, la forma e il senso costruttivo dei contenuti della comunicazione crollano sotto il peso stesso della pubblicità... oltre un certo quantitativo non se ne regge! Si cercano gli sponsor per reggere la pubblicazione di una rivista o nasce la rivista per dare un supporto alla diffusione pubblicitaria?
E qui intervengono i chiodi. Nel 1995 andavo a casa di amici, appendevo ad angolo un mio pezzo piantando un chiodo, fotografavo l’angolo tra le pareti (solitamente non considerato come luogo di esposizione) e poi mi portavo via il pezzo lasciando solo la traccia dell’evento rappresentata dal chiodo, che con la sua sola presenza apriva le due pareti verso una terza parete mentale, più soggettiva e interiore, a chi avesse assistito all’evento.
Ora in questa serie degli SCRAPS, il chiodo acquisisce nuovamente significato, non dissimile ma contiguo a quello della performance.
Il chiodo rappresenta un punto di scelta nella lettura dell’oggetto, in se stesso informe. Un intervento di memoria formale individuale di chi maneggia la “rete”, lo stralcio di “info on web”.  A seconda della propria acquisizione culturale del concetto di estetica si cercherà di disporre il “corpo molle del conoscere” nello spazio e farne un uso “rassicurante” dandogli una parvenza formale stabile secondo il proprio gusto.


PIXEL YIN YANG - 2011

Dove si vaneggia di un COMBIvisore A4 PALmizi e vari segmenti, per infinito SECAMore cartaceo.




Ragionando attorno al pixel, è nata questa forma. Con relativo panegirico di companatico da leggere senza panico. addentando pane e nutella. O mortadella, se si preferisce il salato. Il conto non lo è. Lo salto. Conto fino a 180 e mi arrendo. Avevo trovato un percorso molto più complesso… ma 180 pezzi unici… compito ingrato… 180!
180 gradi. Un angolo piatto. Come d’autostrada.
Non sempre la vita è un’autostrada, non sempre l’autostrada è l’A4, ma sempre l’A4 può, da superficie piana, girandoci attorno,divenire uno spazio di pensieri. Sia che si materializzino in parole tracciate su di esso, sia che il foglio stesso prenda altra forma e divenga “luogo madeleinette-proustiano”.
Come nel caso del nuovo pixel Yin Jang, che non è ping pong, ma forza di coesione e libertà in giusto equilibrio, un vincolo svincolante. Non un vicolo cieco. Un vincolo in cui la coerenza con se stessi possa incontrarsi in modo armonico con la fedeltà alla propria scelta di condivisione con l’altro, a costo di fare la piega per qualcosa, quando la piega sia di rinforzo, non di costrizione. Costruzione, sì. A4 mani e A4 occhi.
Un foglio solo, un terreno comune, con due presenze distinte e un progetto comune che le intreccia e rafforza in questo nuovo pixel, contenitore di energia per inventarsi ogni nuovo A4 ancora da scrivere. Dove l’A4 sia una strada scelta e non imposta da due caselli predefiniti in codice binario. 
Troppe caselle di certezza tolgono sapore al percorso.

Una COMBIvisione… 
Niente colla per fissare in unica forma, ma piccole variabili, 
come virgole che lascino inventare spazi aperti.
Solo uno stralcio di carta di cui ogni piega ne rafforza il farsi forma for menti.

E chi lo getta è perduto. 


Non storcerei il naso se il mio scritto risultasse contorto, o se pensaste che ho torto. 
Se il COMBIvisore non quaglia, nessun vincolo né colla: una bella pallottola (il foglio) e liberi di cercare altre vie. 
Lungo l’A4 e oltre, senza caselli e caselle. 
Svincolati voi, svicolo io…
Se invece vi garba una micro installazione prima della diaspora di mano in mano, per dare all’occhio il valore aggiunto dell’insieme.


Vi si può infilare un messaggio, una data, un foglietto… ma
se diviene scatola d’uso perde l’aura e torna foglio di carta usa e getta.  rf

2012, Sara chiede, RAFFO ne risponde


Appunti distratti tra pieghe senza spiegazione, poco più di una conversazione, per Sara Faccin e la sua ricerca 


-perché non dipingi ma hai scelto di fare altro? dipingevi prima?

-Ho dipinto più o meno fino al ’95, ma già dal ’92 ho iniziato a celare la pittura (in senso proprio anche fisico…) dietro ingombri cartacei o dentro scatole e contenitori, e per tre anni i due percorsi si sono affiancati/integrati. Il colore prendeva materia su fogli di carta da disegno standard, A4 da album scolastico.   Volevo agire sul supporto più anonimo con lo strumento più elementare, usando unicamente pastelli ad olio, la forma di colore più prossima al semplice pigmento sfregato su una parete con cui l’Uomo iniziò l’avventura sciamanica della pittura.
Volevo che al centro del mio fare non ci fosse la ricercatezza dei mezzi usati o la perizia tecnica, ma la semplice urgenza del colore di farsi pittura. Per questo mi ero lasciata alle spalle anche il periodo di pittura a olio, a velature con pennelli di martora e particolari rifiniti capello per capello, che precedette il mio iscrivermi all’Accademia. Sicuramente un periodo utile per affinare lo sguardo sul colore nel suo farsi armonia o stridore, ma non in sintonia con le mie urgenze espressive, (dava solo più spazio allo sbarcare il lunario… il figurativo ha un pubblico più ampio…) La scelta di agire su fogli ordinari sottolineava, nel mio intento, il limitato spazio a margine in cui il ritmo del “fare per essere” relega il pensiero di ricerca del sé. 

Intervenivo sul foglio con un accumulo di segni che venivano a costruire una tessitura di cui si impregnava la carta e si delineava uno sfondamento della bidimensione in un’astrazione d’atmosfera lirico espressionista. Scolpivo con il colore a colpi di lametta da barba, mettendo e togliendo la materia pittorica fino a che il foglio pareva perdere la sua bidimensionalità e i segni di pigmento, spatolato dalla lametta caricata dal suo togliere materia, restavano come sospesi su una non-materia luminosa. Tutto questo, ripensandoci ora, molto in continuità lineare con l’esplorazione dell’astrazione lirica e la sensualità del colore nel suo svanire in luce che affrontai nel periodo dell’Accademia, periodo in cui mi resi conto di interrogarmi non tanto sulla pittura in sé, materia, gesto, colore, spazio, quanto sui materiali, sui supporti, e di avere anche un’esigenza di dialogo con la quotidianità e il desiderio di diminuire la separatezza del linguaggio pittorico rispetto ai gesti della quotidianità. L’usare materiali già codificati per “fare pittura” accentua la pittura come mondo a sé e io vorrei incidere nella decodifica dei segni e sogni della vita, e non dialogare solo con le ricerche pittoriche esposte nei musei o studiate sui libri. Sento la pittura in strada, là dove i Novorealisti la indicarono, e in strada iniziai a cercare le mie risposte. Le prime installazioni con materiali da imballaggio nacquero per esprimere il mio “ingombro mentale”, chiamiamola allergia al fare pittura che richiedesse supporti, cornici, attaccaglie e vendita a punti, a cui si sommava l’odio per come la conoscenza del lavoro degli artisti sia sempre mediata da pessime foto da catalogo che ne distorcono ogni senso.

 …Ero stanca di litigare con i colori sbagliati delle tipografie… I rossi non corrispondevano mai ai miei rossi! Perdevano sensualità ricordando solo il pomodoro da pizza… Esagero ovviamente, ma nemmeno troppo!Volevo eliminare una serie di vincoli, e le scatole raccolte nei supermercati furono la mia prima risposta per legare il mio percorso d’arte alla quotidianità, mia e altrui.
Come il pittore rupestre che contribuiva alla caccia con la sua abilità di narrazione visiva, così io iniziai a nutrirmi dei resti della caccia altrui: le scatole e le pubblicità.
Più gli altri consumano e comunicano, più io ho di che lavorare: le scatole svuotate dagli acquisti sono il colore con cui esprimermi. Non per un intento di riciclo, ma per una ritrovata partecipazione al ciclo sociale. Mi è sembrato il modo per rendere la città il mio territorio di caccia, senza essere io a darmi in pasto a colorifici e corniciai… e per avere sempre con me gli strumenti, scatole e volantini rintracciabili ovunque, con cui costruire installazioni e concrezioni, pensieri cartacei in 3D, anche viaggiando leggera, un po’ di colla, una pistola per colla termica, un po’ di scotch, e le mani in tasca in giro per le città.


 -però comunque il fattore cromatico è un elemento del tuo lavoro, almeno per quanto risulta alla mia visione, non credi sia un po' pittura allargata?
-Sicuramente è pittura, quasi a pieno titolo, anche se alla base del mio fare c’è un concetto che esula dagli interrogativi della pittura.

Nasco pittore e il mio occhio non demorde a tirarmi in quella direzione. A volte lo vivo come un limite. Sono cosciente che l’equilibrio cromatico è un di più che distrae dai concetti da cui nasce il mio lavoro, ma la pittura resta per me una chiave per “incartare” gli sguardi a fermarsi, il mio per primo, e soprattutto una porta alchemica di vitale importanza.
La prima volta che capii questo, fino nelle mie cellule più recondite, fu davanti a un sarcofago egizio. Ero alla National Gallery a Londra, e guardando quattro assi dipinte, inchiodate a comporre una cassa da morto, capii il senso alchemico del dipingere.
Non era un sarcofago prezioso, era uno dei più semplici e rudimentali, e lo strato di colore che ne decorava le assi non aveva nulla di eccezionale, ma, fissandolo, mi resi conto di quello che esso provocava su quella materia: la scatola di legno si trasformava da contenitore a luogo di passaggio, diveniva porta di accesso ad una dimensione immaginaria. L’uomo aveva dipinto quelle assi perchè il morto potesse passare dalla materia di una superficie ad un luogo di viaggio. Stetti male: per due ore non riuscii ad aprire bocca né a muovermi. Mi girava la testa e avrei voluto fermare quel momento di folgorazione e fissarlo per sempre nel mio sentire. Era una risposta senza altre vie d’uscita sul senso della pittura, che poi purtroppo ho più volte perso per strada, sporcandone il senso alchemico con urgenze concettuali che dirottano in altra direzione la mia ricerca. 

-credi sia possibile ancora dipingere oggi?

-La pittura va oltre ogni cecità d’animo e vivrà fino a che ci sarà pensiero libero.
E’ tutto ciò che si è costruito attorno alla pittura che andrebbe smantellato per ripristinarne l’essenza alchemica, che vien meno ogni qualvolta si riveste del “riprodursi in prodotto” senza  pensiero di ricerca. Io continuo a vederla come urgenza di approfondimendo di interrogativi, e non come furbizia/scorciatoia per ego ipertrofici a caccia di un prodotto azzeccato con cui far soldi.
Lo spazio, sempre più risicato e a margine, lasciato a chi ha la volontà di far ricerca e cultura, è territorio di libertà d’espressione. E resta tale almeno come utopia… 

Sara chiede. RAFFO ne risponde.   maggio 2012

estratto da "VALE LA PENA?"