martedì 10 gennaio 2012

2011 - AMO IL MARGINALE. CHE NON E’ UN VENTO. O FORSE SI’







Ogni quesito a volte ha risposte squadernate in piena luce, a volte graffiate in bianco su bianco lungo lo spigolo dove il Tempo incontra lo Spazio.





Ho più quaderni iniziati, molte agende su cui scrivere senza che sia il loro anno deputato, senza avere un ordine di pensieri, caselle o titoli.
Venti anni fa ho voluto iniziare il mio quaderno da una pagina qualsiasi progettando di usarlo senza ordine consequenziale e senza datare l’appunto. Aprire a caso e scrivere, aprire a caso e leggere, sganciandosi dalla cronologia lineare.
Solo formalmente il mio lavoro sembra disperdersi nella molteplicità del fare (concrezioni, installazioni, video) perchè la mia ricerca non è nella forma impressa alla materia, ma nel suo farsi pagina e contenitore di pensiero, mio e di chi guarda.

Il pixel (il piccolo modulo che gioca con ironia cartacea con il suo alter ego virtuale) nasce dalla ripetizione di un gesto di piegatura con cui trattenere un frammento d’informazione dalla caducità del messaggio di cui è ambasciatore denigrato e transitorio. Piego la carta in un gesto di archiviazione che ne annulli ogni valenza di comunicazione diretta e farne un improbabile tessera di mosaico infinito.
Il dire si perde, ma ne resta il colore.
Nel caso dei lavori esposti, il bianco, strappato al rovescio di sgargianti manifesti pubblicitari che non campeggiano più sovrastandoci, sbucano da un angolo. Non urlano più il loro dictat, mendicano uno sguardo in silenzio, ammutoliti come pesci in una boccia di cristallo.

Amo lavorare sul marginale e lasciare i miei appunti scegliersi il luogo da cui specchiarsi negli sguardi altrui, senza confinarli nelle caselle deputate.

Quasi un secolo fa qualcuno spezzò il magico rifugio del pittore e ne richiamò l’attenzione oltre la tela. Ogni piccolo frammento della realtà iniziò a essere inglobato dall’artista, questo dubbioso indagatore che scava ovunque motivi di alchimia gli restituiscano il “bello” nella sua complessità, quel senso dell’esserci che a volte si nasconde nei pertugi più sconnessi, nelle pieghe più nascoste, negli angoli più bui, nei materiali più quotidiani e semplici.
Come per i regali: quel che conta è il pensiero, a dar forza a una scheggia di nulla,
e ciò che nasce nello scriversi in esso.
La scrittura è involucro, è imballaggio, è scatola per trasporti, è la forma più disperata di riciclaggio del sé in cerca di senso.
E il bianco è scatola aperta al dirsi.
Il colore coinvolge, racconta e attrae.
Farlo risuonare nel bianco è un invito a scavarne l’essenza.

raffaella formenti
(appunti ritessuti in occasione della mostra Women White - la dimensione dell'infinibilità - Galleria FABBRI.ca - 2011)