martedì 19 aprile 2011

Strappi a monitor - 2005

CLIK. E’ lo scatto dell’otturatore, suono solo simulato ed elettronico della mia inseparabile Olympus digitale. Mi prendono in giro perché la estraggo di tasca nei momenti più improbabili, l’accendo e scatto con una mano sola, strappando un istante allo scorrere della giornata. Catturo immagini, frammenti senza cronologia. Così come riporto in studio dal mio girovagare le spoglie inermi del consumo, scatole, involucri sventrati dall’acquisto, e colorati volantini che ne propongono il godimento. Colori e forme del comunicare, veicoli che trasportano nutrimenti e desideri, scorze in carta di sogni e progetti, con cui invado me stessa e gli spazi espositivi dopo aver dato loro nuove forme, cromie e significato, trasformati con immagini e strappi.
STRAPPO. SCATTO. CLICCO. Riverso nel computer ondate d’immagini e le rimescolo a suon di mouse sul monitor, inseguendo imprevedibili combinazioni di frammenti che si intersecano con le scritte stesse di Photoshop. Respiro in zapping. Lo si fa ormai con i film, i libri, i pensieri, le persone. Momenti, come cocci di un insieme che non si arriva a leggere nella sua interezza, strattonati da sollecitazioni che si accavallano sovrapponendosi di prepotenza al semplice porre un passo appresso all’altro, senza una mèta, lasciando che oggetti e luoghi configurino con casualità il dove.
CLIC. Una foto archiviata che non risponde ai comandi. Esce una scritta che annuncia un guasto nel salvataggio. Un errore. Il codice binario è uscito di rotta e dallo sbaglio nasce l’imprevisto. E trovo. Forse ciò che cercavo. La chiave per unire i miei strumenti in dialogo: scrittura, fotografia e materia.
La mia attitudine sul lavoro ha sempre conservato il gesto quasi sospeso della scrittura, uno scrivere con le cose che si trasformano una con l’altra attraverso spostamenti minimi, quasi trattenuti, con un oscillare continuo tra il controllo totale della mente e il perdermi nel lasciar parlare la materia stessa. Lo stupore deve essere il mio per primo. Se ogni volta che lavoro sapessi già l’esatto risultato sarebbe la noia. Non reggo la ripetizione del fare, che porta a qualcosa che già conosco. Per chi segue il mio lavoro questa affermazione sembra quasi una bestemmia. Mi vedono da anni costruire pixel, piccoli origami che utilizzo come tèssere di colore per le mie concrezioni, piegare carta con gesti che compio ormai a occhi chiusi, mentre girovago per la città ad ascoltarla correre. Eppure un’apparente ripetizione infinita mi tiene saldamente in pugno solo per l’infinita diversità possibile dell’utilizzo del materiale che si addensa di volta in volta in variabili combinatorie.
E ogni volantino piegato in pixel è una nuova scoperta di come andranno a combaciarsi i colori, studiati dal grafico per “imballare” il messaggio, e ora stravolti da una piegatura che ne costruisce un nuovo ritmo.
E l’illeggibilità. La parola torna colore e tace il messaggio esplicito, azzerata dal moltiplicarsi di altri e altri messaggi che strattonano lo sguardo che ha solo il tempo di una carezza distratta dei contorni. Dei pensieri. Del sentire. Strappati.
Strappo le immagini con un CLIC sul monitor, e frammenti di un volto, di un lavoro, di un luogo, si intersecano in nuove storie, cromie, suggestioni. I colori scomposti in primari, quasi una prova di stampa prima del via definitivo alla versione finale, che in video non c’è, è in continua possibilità del nuovo. CLIC. Il mouse come la macchina foto.

E ancora il puzzle si trasforma in altro, e c’è una strana tensione tra il mio sguardo e la mano, come quando si insegue un colore col pennello e senti la lotta tra il gesto e il pensiero che si placa solo quando non distingui l’uno dall’altro e ti perdi nello stupore del nuovo.
Ho il corpo immobile davanti al computer, sono le due di notte e ancora non mi schiodo: riordinavo immagini le più disparate e ancora non ho potuto resistere dall’aprire il file che strappa alla memoria del programma l’avvicendarsi delle mie e sue immagini.
STAMP-CLIC. Catturo e fermo ciò che l’occhio sceglie come definitivamente mio.
E archivio il nuovo file dopo averne goduto l’imprevedibile nascita o averlo modulato con piccoli tocchi del cursore ancora in altre note, rimandando all’infinito di spegnere lo schermo fino a domani. raffaella formenti, 21 febbraio 2005

about STAMPixel vedi anche
http://raffaella-formenti.blogspot.com/2008/12/maschera-teatro.html